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Dennis Tondin: Biker dall’animo viaggiatore

Dennis Tondini è un ragazzo dall’animo un po’ pazzo ma, allo stesso tempo, tranquillo, spensierato e sempre pronto a nuove esperienze. Ha un passato nel motocross e un presente nella mountainbike.

Dennis Tondin 3

Fatto salvo l’abbigliamento tecnico, le sembianze e le movenze sono più da rock star che da rider ma la faccia spesso sorridente e i modi gentili ed accoglienti tradiscono la semplicità d’animo e la grande disponibilità verso gli altri. Dennis Tondini è un ragazzo dall’animo un po’ pazzo ma, allo stesso tempo, tranquillo, spensierato e sempre pronto a nuove esperienze. Ha un passato nel motocross e un presente nella mountainbike: vuole diventare un ottimo biker ma, soprattutto, non vuole negarsi le emozioni che questo sport gli sta dando: e non parliamo di tabelle d’allenamento ma di visitare luoghi in sella alla propria MTB, conoscere gente nuova e respirare l’aria diversa che troviamo solo in luoghi lontani da casa nostra.

Raccontaci i tuoi inizi.
Correvo nei campi di casa con una piccola moto, divertimento allo stato puro, poi a 15 anni ho cominciato a lavorare e di conseguenza ad avere un piccolo budget per correre con le moto da cross. Ho fatto 6 anni buoni in questo ambiente con circuiti Europei, campionati Italiani etc.
La passione me l’ha trasmessa mio papà che poi ha continuato a seguirmi per tutte le gare insieme a mio fratello Maicol, che il destino ha portato via a soli 17 anni. Dopo questa mancanza non sono più riuscito
a trovare la serenità per correre e ho mollato. La verità è che non riuscivo più a gareggiare senza di lui che mi guardava. Quindi mi serviva un’alternativa e, dopo un inverno al Bondone, ho pensato al DH grazie ai consigli di un amico di Riva. Quindi ad Aprile sono andato a prendere la mia prima bici.

Quale è stata la tua prima MTB?
Una Sunn Radical da DH che ho comprato al 100-one da Fabio, il quale ringrazio. Il primo anno ho fatto giusto qualche garetta per svagarmi, poi l’anno dopo mi sono buttato nella categoria amatori e con il terzo anno è iniziata la mia carriera da Elite con il Team Mangusta. Da lì in in avanti ho preso tutto un po’ più seriamente, ho ridotto il mio impegno con il Paganella (lavora come maestro nel Bike Park, ndr) e mi sono buttato sull’agonismo.
Al Paganella la paga non è molta visto che spesso lavoro fino al Giovedì per via delle gare e quindi i giorni effettivi di lavoro sono pochi. In questi 2 anni avevo dei soldi da parte che praticamente ho finito per correre. Quindi o smetto un po’ e la prendo in modo più tranquillo o altrimenti devo trovare un modo per andare avanti e cercare di realizzare i miei sogni.

Non hai sponsor che ti sostengano?
No, non c’è nessuno ormai che ha soldi da spendere in sport minori. Anche perché, sinceramente, a chi frega di sponsorizzare un Dennis Tondin di turno, sono un signor nessun, nel nostro piccolo mondo mi conoscono ma appena esco all’estero c’è una marea di gente che va più di me. (ndr, Dennis è molto modesto, ma una classe come la sua sarebbe ben ripagata in sport maggiori, pensiamo al calcio, l’unico sport visto di buon occhio in Italia).

Sei già stato convocato in nazionale?
No perché c’è una norma in Italia che se non sei Under 23 e non hai almeno 30 punti UCI non puoi essere convocato. In Italia c’è solo il campionato Italiano che da punti UCI quindi è dura racimolare questo punteggio se non facendo un’attività all’estero, che costa.

Com’è il rapporto con Vernassa?
Non saprei, non abbiamo avuto mai una discussione ma non sembra esserci feeling, forse per colpa del mio carattere, di come vivo le gare. Io sono super tranquillo e se c’è da chiacchierare e far festa sono il primo, non vedo il perché devo essere sempre super concentrato e teso quando posso ridere e scherzare. Logico, questo prima di partire, poi quando è ora di iniziare la gara si torna ad essere concentrati. Forse è questo modo di fare un po’ fuori dagli schemi che mi mette in cattiva luce, il fatto di sembrare poco professionale ma quando mi metto l’integrale vi garantisco che l’impegno è oltre il 100%.

Come ti trovi con il Team Mangusta?
Con loro ho un rapporto di famiglia, qualsiasi problema che ho, loro mi danno una mano. Se hanno un minimo di budget per darci un mano lo fanno, ci mettono tutto l’impegno che possono.

Senza nulla togliere alla professionalità del Team Mangusta. Hai mai avuto l’idea di passare in un grosso team?
Diciamo che è il sogno di tutti essere in un grosso team dove ti riempiono di materiali con componenti all’ultimo grido, però c’è anche da dire che il rischio è avere tutto a livello di materiali ma
poi essere solo a livello umano. Io sto bene con il mio team perché alle gare mi diverto e loro sono sempre presenti e mi danno tutto quello di cui ho bisogno. Vedo gente in grossi team che non si diverte più ad andare in bici… non so se ne vale la pena. Che senso ha? E poi qui abbiamo completato lo sviluppo di una bici ottima che non ha nulla da invidiare a nessuno.

Tutti ti definiscono un po’ pazzo… a livello preparazione come sei messo? Segui delle tabelle?
Qui pecco (ride), non ho mai fatto niente a livello di preparazione, giro con la mia bici da Enduro e se c’è da pedalare il meno possibile, pedalo il meno possibile. Però quest’anno mi piacerebbe allenarmi bene grazie all’aiuto di Davide Allegri che mi da continuamente consigli sulla preparazione. Visto che la bici è ok, se sono ok anch’io è più facile fare risultato. Però devo comunque divertirmi, gente che vede le gare come un ‘devo fare risultato’, ‘devo vincere’, non si diverte. Ma tanto chi te lo fare, non ci paga nessuno, un conto è essere un professionista tra i primi al mondo allora ha senso, ma l’esasperazione
alle garette regionali no, non mi piace. Prendiamoci tutti meno seriamente e facciamoci una birra.

Che obiettivi hai per la prossima annata?
Basterebbe finire nei primi le gare di Gravitalia o battagliare al Campionato Italiano. Il livello in Italia sta crescendo e girare sui tempi di Revelli & company, che in campo internazionale hanno un bel ritmo, è un bell’obiettivo. Altro sogno è fare una qualifica in Coppa, come va va… mi piacerebbe molto.
Il movimento DH come lo vedi a livello di clima, di emozioni, anche paragonandolo all’ambiente del motocross. Come clima, forse adesso il DH sta cambiando un pochino, si sta professionalizzando. La cosa è positiva ma diventa negativa se il tutto si esaspera come è successo nell’ambiente moto. Tra i motivi per cui ho abbandonato le gare di motocross c’era anche questo, non era più andare in gara a divertirsi ma bisognava stare attento a non guardare quello là perché non girava buon sangue, o arrivavi la sera alle 10 e c’era chi si lamentava perché facevi casino e magari dormiva dalle 9. Siamo a una regionale, si vince una coppa di plastica: se vuoi la coppa, facciamo una colletta e te la regaliamo, così siamo tutti contenti e possiamo divertirci. E questo l’ho sempre odiato e in bici per fortuna ancora non c’è, si è molto ma molto più rilassati. Logico che parlo di gare di livello regionale, se sono a un IXS Cup o circuito Europeo ecco che la storia cambia e deve esserci più serietà e il rispetto di tutti ma finita la gara amici come prima e si festeggia.

C’è qualcosa in particolare che non ti piace del movimento DH?
E che ti piace. Forse il discorso piste nel Gravitalia. Mi piacerebbe che il Campionato Italiano avesse delle piste con la P maiuscola. Comunque non è troppo grave la situazione, abbiamo esempio Pila e Fabrosa che sono degli ottimi tracciati. Tanti quest’anno si sono lamentati di Fabrosa che non era una pista da DH ma effettivamente non era male, non aveva sassi, scassato ma facevi delle grandi velocità: c’erano delle grandi staccate da fare e comunque era tecnica perché se sapevi andare in bici anche lì facevi la differenza.

Enduro, cosa ne pensi?
Non mi piace il format che fanno qui da noi. Si prova troppo e non c’è abbastanza discesa. Ok qualche strappo, ma le PS devono essere guidate. Devi arrivare in fondo che hai rischiato la vita 100 volte perché ho un enduro e dici:”quel passaggio lì l’ho fatto”. Adesso è più un pedalare verso il Cross Country.

Ma così non c’è rischio che diventino delle gare DH?
No, l’enduro deve rimanere comunque una disciplina gravity, la differenza rispetto al DH deve essere lo stile con cui si affronta la gara, il format. Secondo me l’idea migliore sono le ricognizioni a piedi. L’Enduro deve essere un’avventura, se sai il percorso a memoria, come succede ora, è uguale al DH e allora che senso ha, facciamo tutti DH. Logico, il local sarà avvantaggiato ma ora della fine lo è anche se le ricognizioni sono libere: lui ci gira da quando aveva 15 anni in quel percorso, di certo provarlo 4 volte non ti mette sullo stesso piano. L’Enduro non dovrebbe permettere le ricognizioni meccanizzate, solo a piedi.

Se ora arrivasse un’offerta, correresti in Enduro?
Dipende dall’offerta (ride) però se dovessi correre in enduro non mi piacerebbe
la direzione che sta prendendo questo sport, sono tutti a provare e riprovare. Come detto prima, tutti conoscono le PS a memoria, Martin Maes è stato portato 12 volte in PS3 a Finale Ligure, ma come lui tutti.

Visto che siamo sull’argomento, delle meccanizzate cosa ne pensi?
Che è uno degli aspetti che meno mi piace, sarebbe bello avere meno traffico e ricognizioni a piedi. Greg Minnaar lo stimo perché ha voluto fare la gara di Finale Ligure alla cieca (anche se c’è da dire che ha passato tutte le sere a guardarsi le prove filmate del suo compagno Peat). Ha chiuso 61° a pochi secondi dai nostri migliori Italiani, un campione. E poi dovevate vederlo il Venerdì e Sabato sera: io non avrei mai corso mentre lui era al cancelletto. Gli aneddoti che vi racconto ora, meglio non scriverli sul giornale.

E l’Argentina?
Tutto è nato per scherzo grazie a Jere Maio, un pro-rider argentino che ha passato sei mesi in Europa tra Andorra e Italia e che ho conosciuto al Paganella quando è venuto a girare nel Park. Ho fatto amicizia e siamo riusciti tramite lui ad avere l’invito per la Redbull Valparaiso, gara spettacolare a Cerro
Abajo in Chile, considerata una tra le più spettacolari Urban DH del mondo. Il mio sogno.

Come ti sei organizzato?
Non c’è stata molta organizzazione, ho sentito il mio amico Simone Medici e ha accettato anche lui di seguirmi. L’obiettivo era stare un 2 settimane, ambientarsi un po’, correre la Valparaiso e tornare a casa. Il tipo (ndr, Jere Maio) ci fa:”ma state qui un mesetto, vi fate 2-3 gare prima, vi ambientate meglio, magari prendete qualche punto UCI e fate la Valparaiso”. Ok, un mese è ottimo ma poi è uscito che siamo partiti a Natale e siamo tornati ad Aprile. 18.000km in un Kangoo in 3. Un’esperienza allucinante che consiglierei a chiunque, nello stile in cui l’abbiamo presa noi.

E che stile?
Cioè così, arrivare la senza grossi contatti (noi avevamo Jere Maio) e viaggiare, ospiti anche di amici di amici di amici. Il bello è che in questi posti ti ospitano tutti senza problemi, sono molto aperti con le persone. Qui è più facile vivere da… “zingari”.

E come rider sei cresciuto?
Si, ci sono mentalità diverse, vivono la bici in maniera diversa, si divertono. Trovi biker che partecipano alle Urban DH con bici che qui abbiamo paura ad usare in Cross Country. E poi i percorsi: sabbia a non finire e si finisce a girare con gomme da fango per la tanta polvere che c’è. Le slick non tengono nulla. Uno stile di guida opposto, specie dalle zone in cui vivo, molto rocciose. Spero di tornarci prossimo anno, sto facendo di tutto per raccimolare qualche grano per il viaggio in modo da rifare la Valparaiso e tutto quello che ruota attorno.

Quindi ti rivedremo probabilmente al cancelletto di partenza della Valparaiso 2017?
Spero proprio di si, è una gara splendida, mai vista così tanta gente ad una gara (stimate 15.000 persone): foto, autografi, vivono il tutto come una festa e ti sanno esaltare in una maniera allucinante.
Gente in piazza che urla, gente che quando scendi le scale ti tocca con la mano il braccio e pensi:”se mi prende giusto tiro una cartella da chilo!”, ma lì vale tutto, la sera prima l’organizzatore ti dice:”ragazzi, i cani e la gente fanno parte della gara, non posso farci niente, metto le transenne ma la gente è la gente… ed è anche questo il bello!”. Ti fanno vivere bene quella giornata, ti senti l’Aaron Gwin della situazione anche se finisci -esimo.

A proposito di ‘cartelle’, cosa hai pensato mentre stavi cadendo da 5 metri di drop senza bici?
Non ho pensato a niente… l’unica cosa che mi ha frullato per la testa è: “tieni giù i piedi, vedi di mettere per prima cosa i piedi a terra”. Era il 2° giro di prova dopo il 1° fatto a piedi, forse lì stavo pensando un po’ ai cavoli miei perché appena prima avevo fatto male una curva e sono stato un po’ troppo
a sinistra. Il problema è che il landing (ndr, atterraggio) era a sinistra e quindi si doveva saltare verso quella direzione ma sono stato un po’ troppo in là. Sono stato fortunato perché se cadevo mezzo metro più corto cadevo sopra alla struttura dell’atterraggio… e c’erano anche i ferri che sostenevano tutto. Ho avuto tanto ma tanto c**o. Una caduta del genere e solo un graffio.

Gli addetti ai lavori cosa ti hanno detto?
Ti dico solo che Bernando Cruz (uno dei miei idoli) mi viene incontro, mi guarda e mi fa:”ma tu sei quello della caduta”, “si”…, “ma sei ancora vivo?” E lì a parlare tutta la sera in Spagnolo, fermo restando che io non conosco lo spagnolo, o meglio, sono arrivato là che non sapevo una parola e sono tornato che riuscivo a farmi capire.

Ciao Dennis e speriamo di rivederci presto!
Un saluto a tutti i lettori di 365mountainbike e finalmente anche io ora posso dire di avere un’intervista sul giornale!



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